venerdì 21 dicembre 2012

E se fossimo un po tutti dei tenenti Drogo?






Ero stata avvisata, me lo avevano detto che dopo aver letto “Il deserto dei Tartari” di Buzzati, mi sarebbe rimasto un sapore amaro in bocca. Che mi avrebbe fatto riflettere, addirittura che mi avrebbe quasi “depresso”.
E in effetti è stato così. Anzi no, non mi ha depresso, ma sicuramente ha parecchio agitato i miei pensieri.
Mi sono chiesta “quante volte mi sono sentita un tenente Drogo? In effetti parecchie e quanti si sono trovati nella stessa situazione?”.
Ma prima, facciamo un passo in dietro e ripassiamo la trama del romanzo.
"Il deserto dei Tartari” narra la vicenda di Giovanni Drogo, un giovane di ventun’anni, che dopo essere stato nominato tenente viene mandato alla fortezza dei Bastiani. Questa, ultimo avamposto sul confine nord del territorio, segna il confine e si affaccia appunto sul deserto dei Tartari. In passato la Fortezza aveva rivestito un ruolo fondamentale per difendere il regno dalle incursioni nemiche, ma ormai da anni, da quel fronte non giungeva più alcun attacco. La fortezza, non aveva più nessuna importanza strategica, era solo una costruzione né bella, né maestosa, che continuava a vivere nell’illusione e nella speranza. Drogo, appena arrivato alla fortezza, cerca un modo per andarsene prima del tempo. Ma poi per dei disguidi e principalmente per sua scelta, vi resta.
Così i giorni diventano mesi e i mesi anni. Il tempo per Drogo passa sempre uguale, nella speranza che un giorno i nemici compaiano all’orizzonte. Nonostante il tenente e i suoi compagni siano consapevoli dell’assurdità della loro attesa, non riescono a smettere di sperare e di sognare, sperare di incontrare il nemico, di combattere per dare un senso ad una tanto lunga e ostinata attesa.
Aspettando la sua grande occasione Drogo e i compagni invecchiano, soli, con un unico amore e un'unica ragione di vita: la Fortezza.
La vita di Drogo, prosegue piatta, nella costante attesa, fino all’ultimo scherzo del destino. Finalmente all’orizzonte si scorge qualcosa,  i nemici avanzano verso i confini, i soldati si preparano ad attaccare, alla fortezza vengono mandati i rinforzi e il tenente Drogo, gravemente malato è costretto ad andarsene. L’occasione tanto agognata, il sogno di una vita non si realizza, perché il suo stato di vecchio malato lo rende inabile alla battaglia.
Drogo morirà così da solo, nel letto di una locanda. Non morirà deluso e amareggiato ma soddisfatto. Pochi istanti prima di morire capisce la sua missione: morire con dignità. Il nemico che doveva sconfiggere non erano i Tartari, ma la morte.
Un finale insomma a sorpresa, inaspettato che nonostante la mote, per così dire, serena di Drogo, lascia i lettori delusi, basiti e infastiditi. Tristi per la fine tanto sciocca del protagonista, che dopo aver vissuto nell’attesa di una battaglia, di un avvenimento, vede tutte le sue speranze deluse.

Ed è proprio questa attesa delusa, il centro delle riflessioni e dei dubbi che insinua la lettura di questo romanzo. Buzzati narrando l’esperienza del tenete Drogo, vuole raccontarci anche la sua storia, dare sfogo ad un suo personale sentimento di attesa, di insensatezza.
Ma questo sentimento, in un certo senso, non vive in ciascuno di noi? Quante volte ci capita di pensare “quando avrò finito l’Università….”. Da sempre, fin da quando eravamo bambini, ci siamo abituati a sperare in un futuro a sperare che prima o poi qualcosa sarebbe cambiato, sarebbe stato diverso. Ci siamo abituati all’attesa a vivere quasi nell’oblio aspettando il momento giusto, il momento migliore, perché per ora, ci sono altre cose più importanti o immediate a cui pensare.
Da piccoli pensavamo “appena sarò grande farò….” Poi crescendo “appena sarò maggiorenne e avrò la patente…..” e ancora “quando avrò vent’anni” e poi “quando avrò un lavoro…” ecc…. Rimandando in continuazione il momento di crescere e di prendere decisioni importanti.



Aspettiamo. Questo clima di costante attesa, indecisione, oblio. Questo è quello che mi ha trasmesso “Il deserto dei Tartari” la paura di fare la stessa fine di Drogo, la paura di consumarmi nell’attesa di chissà cosa.
Forse non c’è un momento giusto per andare a vivere da soli e nemmeno per scrivere quella storia che abbiamo in testa da una vita, forse non c’è un momento giusto per dire ti amo e nemmeno per compiere dei veri passi verso il futuro.
L’importante è semplicemente agire, non fermarsi, non aspettare, muoversi e fare qualcosa, cercare sempre qualcosa.

A tale proposito, non ho potuto fare e meno di collegare questo sentimento, questi pensieri, con una famosa preghiera o poesia di Madre Teresa di Calcutta :

Non aspettare di finire l’università,

di innamorarti,

di trovare lavoro,

di sposarti,

di avere figli,
di vederli sistemati,



di perdere quei dieci chili,

che arrivi il venerdì sera o la domenica mattina,

la primavera,

l’estate,

l’autunno o l’inverno.
Non c’è momento migliore di questo per essere felice.

La felicità è un percorso, non una destinazione. Lavora come se non avessi bisogno di denaro,

ama come se non ti avessero mai ferito e balla, come se non ti vedesse nessuno.

Ricordati che la pelle avvizzisce,

i capelli diventano bianchi e i giorni diventano anni.
Ma l’importante non cambia: la tua forza e la tua convinzione non hanno età.
Il tuo spirito è il piumino che tira via qualsiasi ragnatela.
Dietro ogni traguardo c’è una nuova partenza. Dietro ogni risultato c’è un’altra sfida.
Finché sei vivo, sentiti vivo.

Vai avanti, anche quando tutti si aspettano che lasci perdere.




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