Censura. Una parola che per noi, in Italia, non ha più alcun significato. È
dai tempi del fascismo che lo stato non applica più la censura ai mezzi di
comunicazione.
La libertà di espressione attraverso la radio, internet, i quotidiani e le
televisioni, per noi è qualcosa di ovvio, di talmente normale e scontato che
nemmeno gli diamo la giusta importanza. Invece, in alcuni paesi, anche in piena
ascesa economica la libertà
d’espressione non esiste.
L’esempio più eclatante è la Cina, potenza economica mondiale, paese
popolosissimo, che tiene i suoi abitanti al guinzaglio.
In Cina, le parole fanno paura.
Nemmeno Internet, il più libero dei mezzi di informazione, riesce a
sottrarsi alla censura. Sono oltre 400 i termini proibiti in rete, quando
vengono digitati, salta la connessione. Addirittura, da qualche mese, il
governo di Pechino per ridurre la libertà di navigazione a zero, ha varato una
norma che costringerà tutti gli utenti a registrarsi con un documento d’identità.
Si punta quindi sull’autocensura, con la certezza che nessuno pubblicherà su
siti o blog contenuti proibiti, sapendo di essere immediatamente
rintracciabile.
Ma quali sono i temi e
le parole proibite? ovviamente tutto ciò che riguarda la politica, i diritti
umani, gli scandali o i casi di corruzione. Addirittura, i numeri 64, o 6 4 o
89 sono oscurati, perché ricordano il massacro di piazza Tienanmen (4/6/89),
non si può scrivere “leone delle nevi” perché il simbolo è presente sulla
bandiera del Tibet. Anche i Teletubby sono vietati, perché il nome di questi
cartoni animati è anche il nomignolo per il premier cinese Wen Jiabao, e guai a
digitare le parole McDonald’s, Egitto o Tunisia. Oltre a tutto ciò, Twitter,
Facebook e perfino Wikipedia non esistono. O almeno non dovrebbero esistere. Al posto dei social network che tutti conosciamo, la
Cina ha i suoi personali, privati, tipo RenRen, Weibo e QZone.
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